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GIRO DEL MONTE BIANCO

6 / 7 luglio 2006

Vado solo a fare un giretto (del Monte Bianco) e torno subito!

di Luigi Capellani e Ivano Vinai

Come nasca l’idea d’affrontare simili “mattane” è forse l’unica vera domanda alla quale valga davvero la pena rispondere. La molla che mi spinge è senz’altro un misto tra, curiosità, masochismo, follia, senso di libertà e perché no… di protagonismo. La soluzione dell’arcano forse non è nella rivelazione della risposta quanto piuttosto nel piacere della sua ricerca, confermando così l’idea base che il ciclista randonneur ama il viaggio ancor più dell’arrivo, benché questo ne sia il coronamento. La vera risposta, per fortuna, credo sia nascosta nella natura curiosa e indagatrice tipica dell’uomo, la stessa che mosse Ulisse lontano da ltaca, quella di chi cerca la sua strada per tentativi e con i più svariati mezzi, nave e bicicletta compresa, senza ben sapere dove andrà a parare, consolandosi o esaltandosi a seconda della soddisfazione ottenuta da ciò che ha intimamente conseguito. Coloro che prima di partire mi dicono: “Tu sei matto!”, lo fanno a toni acuti e con l’esclamativo ben pronunciato, come ad esorcizzare lo spirito di una persona che, così facendo, è anticonvenzionale per natura e sfugge all’omologazione stravolgendone i canonici parametri – per altro mai scritti – dei giudizio morale oltre a quelli tangibili e ritriti dei già visto, dei già detto, dei già saputo. Chi pronuncia quelle parole in quel modo ha una visuale ristretta e limitata dei “possibile” e non t’invidia affatto, spesso, tacitamente, spera che i miei propositi falliscano, solo per confermare che il suo piccolo mondo è quello giusto, sano, buono, corretto, ma soprattutto: l’unico possibile. Ad impresa compiuta il: “Tu sei matto.” si ripete, ma alla fine c’è solo un punto di conferma, il tono è basso e si esaurisce cadendo in cantina, proprio dov’è appena finito il suo concetto dei «possibile” rendendolo di fatto obsoleto, anacronistico, stantio ancorché meschino, a quel punto t’invidia eccome, ma non lo ammetterà mai, nemmeno sotto tortura. Pur nell’evidente torto, insiste nel darmi dei matto nel goffo tentativo d’emarginare, più che la mia persona, la lezione di libertà di pensiero ricevuta, finendo per rimarcare così solo i propri limiti. Non a caso ho definito il Giro dei Monte Bianco una “mattana”, badando bene a virgolettarlo, ben consci ne sono gli organizzatori (francesi) che concedono un limite massimo di quattro giorni. Parlandone prima di partire, in molti ritenevano lo facessi a piedi o al limite in MTB, noi l’abbiamo compiuto attraverso 332 km di asfalto e 7300 m. di dislivello, ovviamente no-stop in “comode” 24 ore. Anche questa volta i soloni dei dejà vu hanno dato fiato ai loro strali facendomene notare la follia, ancora li ringrazio, dato che da sempre raccolgo certi inviti come un’ulteriore spinta per altre ‘mattane”.

Ho detto “noi” perché, una volta tanto non sono solo, con me c’è Luigi Capellani, un milanese sessantenne d’acciaio, con oltre 1500 colli diversi scalati e molte più “mattane” di me già nel suo palmarès. Ma come si fa a dire che uno non è matto se si prende la briga d’attaccare da Aosta i 2470 m. dei Gran S. Bernardo alle 04:00 dei mattino? Salendo nel freddo silenzio ci accorgiamo che le stelle bucano il buio, a dispetto della pioggia della nottata trascorsa: “Facciamoci coraggio Luìs, ‘sta volta non la scampiamo!”, è solo pro-forma, in realtà siamo lì per quello. L’ascesa è deserta e al colle, ma ancora dal lato italiano, solo per non farci spellare vivi dai prezzi svizzeri, dopo aver consumato u n’approssimativa colazione nel bar di un Hotel, il gestore, dall’occhio torvo con noi ciclisti, ma a braghe calate con chi parcheggia la Ferrari lì fuori, ci rifiuta il timbro dei controllo con malcelato fastidio, rimandandoci al Bazar a quell’ora (07,30) ancora chiuso, e poi ci stupiamo se il turismo si dirige altrove. Per fortuna ritroviamo quell’affabilità tipicamente nostrana in chi tipicamente nostrano è, cioè: i Carabinieri dei posto di confine che, incuriositi di vederci lì a quell’ora addirittura c’invitano al nostro adempimento burocratico, martellandoci di domande seguite da altrettanti ammirati commenti… ed è solo l’inizio! Di là siamo in Svizzera e t’accorgi d’essere proprio in Svizzera, manco fossimo in… Svizzera. Nei 62 km elvetici dei nostro giro, in mezzo a quel verde smeraldino che sembra tinto, di prati pettinati con la riga in mezzo e mucche pezzate pulite manco si docciassero tutti i giorni, ho visto a terra solo una cassetta vuota della frutta che spiccava come Morgan Freeman ad un raduno dei Ku Klux Klan. Probabilmente era d’albicocche, di una varietà tipica dei luogo che cresce grande e ben colorita, alla faccia dell’insolazione non certo mediterranea, queste, vendute anche su banchetti improvvisati (a caro prezzo esposto) sparsi lungo l’ardua ascesa dei Coi de la Forclaz, sul quale incrociamo padre e figlio svizzeri-tedeschi, dallo stentato francese, volenterosi ciclisti naìf dai calzettoni lunghi e bianchi che nemmeno la mitica Pippi.

Da buon cuneese sono avvezzo ai confini nazionali, regionali, posti sugli spartiacque montani, questo, tra Svizzera e Francia è invece incassato nel fosso di due vallette secondarie, al fondo dei duro Forclaz e all’inizio dei facile Coi des Montets, esattamente al km 100 dei nostro viaggio, a Le Chatelard, per altro stazione di transito per il treno turistico franco‑svizzero du Mont Blanc. Che i francesi non abbiano ancora digerito la sconfitta della finale dei Mondiale di calcio è evidente in molti dei loro atteggiamenti. Vedi il gendarme di confine, che mi da poche e svogliate informazioni sul fatto che il mio socio, da me smarrito, sia già passato o no da lì, come avrebbe potuto non vederlo? Vedi il meccanico ciclista di Chamonix, il quale mi fa strapagare la rimessa a dimora di un raggio saltato salendo il Forclaz e la di (uì fidanzata che s’indigna oltre modo per una pelle di salame cadutami casualmente a terra. Vedi la negoziante di St. Gervais les Bains che mi dice di non invadere lo spazio espositivo dei suo negozio (chiuso) con la bici appoggiata al muro e, una volta aperto, non utilizzarlo neanche lei. Beh, non che i francesi siano mai stati il massimo della simpatia, ma quella mia bandiera tricolore in plastica infilata sotto la sella e volutamente ben in vista ha fatto il suo dovere “provocatorio”, sapete che vi dico: va bìn parèi!

Ora; vorrei che tutti i potenti della terra tenessero un summit ecologistico a Chamonix, così vedrebbero coi loro occhi il grave ritiro dei ghiacciai dei Monte Bianco. Toccherebbero con la mano della coscienza quali danni produce la follia della corsa umana, così concepita, sull’ecosistema dei Pianeta. Proprio lì, per quanto ammirato, il mio sguardo s’è posato attonito e muto allargandovi un buco nel cuore. Proprio lì, dov’erano seracchi e crepacci fin quasi a valle, ora già gli alberi hanno avuto tempo di ricrescita e le nude rocce invadono spazi fino a ieri rifulgenti di ghiacciai spettacolari, ormai non più eterni, ma solo eternamente perduti. Quando in tempi certamente non sospetti, chiesero a Ghandi se l’india, appena indipendente, potesse mai un giorno raggiungere il livello di potenza e sviluppo britannico, il Mahatma, con caustica lungimiranza rispose: “Per essere dov’è, l’Inghilterra ha usato metà delle risorse della Terra, per fare altrettanto, quante Terre servirebbero all’India7′. Chamonix, 1036 m., 250 all’ombra, ma i ghiacciai non lo sanno e stanno al sole, come sempre, anche in questo fine Luglio 2006 che nel primo pomeriggio registrerà 350, signori: posate l’auto e andate in bici, giuro… non vi chiederò mai di venire con me! Oltre Megève, poco prima d’attaccare il Coi des Saisies, una spruzzata di pioggia rinfresca appena le nostre schiene ostinatamente ricurve, ormai sono quasi 170 km e Luìs è da Chamonix che mi mette una leggera fretta, penso di saperne il motivo. Accetto la “spinta”, anche perchè memore di un ciclista francese che mi segnalò questo colle come: “Pas trop difficile». Giunto in cima di buon passo, giuro che se l’incontrerò di nuovo gli ricaccerò il gola quella frase e tutta la faticaccia nera servita per superare quell’ostinata scalinata di 15 km tutta al sole e Luìs è d’accordo con me! ‘ccident’allui! A Beaufort, luogo di produzione dell’omonimo ottimo formaggio nonché km 200, ci concediamo una meritata pausa, il Coi des Saisies ha lasciato il segno proprio prima d’affrontare il Cormet de Roselend quasi a q. 2000, valico dal nome soavemente suggestivo e dolcemente romantico. Da qui in avanti però è un’altra musica, quella suonata dai crapuloni come noi, che scavalcano Colli, saltano notti, triturano chilometri come fossero una parentesi che si può anche non leggere, ma il prezzo da pagare ad un’eventuale mancanza d’umiltà è senza sconti, cioè, l’infrangersi della tua impresa. Ripartiti, m’attardo subito per una foto, Luìs si stacca e non lo recupero perché la gamba “gira male”, sto pagando il Saisies e la cosa m’innervosisce. Ho un grave calo d’autostima e mi sento una nullità immerso in quel trionfante bosco d’abeti che mi fagocita schiacciandomi sull’asfalto e che ora regala un’inutile ombra dalla quale cerco di venire fuori, per trovare poi solo dure rocce strapiombanti, innaturale silenzio, solitudine che ti schianta e quel senso di mondo perduto come i ghiacciai dei Bianco che questa salita ti da, soprattutto a quest’ora, che è già quella dei tardo pomeriggio con l’incombere dei calar dei buio, vero testimone della fretta dei mio compagno, data la sua difficoltà come discesista. Tenta infatti di giungere al colle con luce residua sufficiente per poter scendere, io non ho questa difficoltà tecnica, il mio problema è la salita di adesso!. AI Coi de Meraillet, valico di passaggio 8 km prima dei Cormet de Roselend, la strada contorna un fantastico lago, per quanto sia artificiale la sua bellezza è pura e mi rinfranca.

E’ uno spettacolare specchio d’acqua nel quale si tuffano i riflessi delle montagne della Savoia che lo coronano ancora illuminate dagli ultimi bagliori della sera, mentre il cielo terso si tinge di rosa acceso e l’aria mi punge di fresco.

Il riaggancio a Luigi è effimero, non sono in crisi ma in difficoltà certamente si. C’è ancora il Piccolo S. Bernardo da scalare e gli ultimi 6 km dei Cormet diventano una prova d’esame a tutta l’esperienza accumulata, è il momento di sfoggiarla. Tiro su due denti, rallento a 6/7 all’ora, abbasso battiti, tensione, spesa energetica fisica e nervosa risparmiando tutto ciò che si può, e rifiato. All’esterno di un rifugio un km prima dei colle, una famiglia mentre cena resta coi boccone sospeso nel cucchiaio e a bocca aperta vedendomi passare in quel posto e a quell’ora, mi scappa persino da ridere. Ai 1968 m. del Colle Luigi è già pronto per la foto ed è vestito per scendere, non vuole sprecare nulla di quella luce residua, dato che sono ormai le 20:45. io m’attardo ancora 10 minuti, necessito di rifiatare e di mandar giù qualcosa per completare l’opera di recupero psicofisco in atto, la discesa non mi spaventa, anche se più scura, anche se mai vista e, data l’ora, mi sa che non la vedrò nemmeno questa volta.

Laggiù, tra le luci di Bourg St. Maurice, Luìs è lì non da molto e si è appena cambiato, vuole dell’acqua e gli indico una fontana a Seeze, tra 3 km. Ancora una volta mi rendo conto di dare informazioni specifiche disinvolte in luoghi molto lontani da casa, ma la fontana c’è! E’ il km 242, ci facciamo anima e coraggio, ci attendono altri 28 km di salita, non dura, ma sempre 28 sono, in piena notte, con quei km alle spalle e con 5600 m. di dislivello sul groppone, abbigliamento notturno obbligato e… via. Saliamo lenti a passo e ritmo controllato, ho abusato della tripla su tutti i colli, qui no: 36×24 e salgo regolare, segno che ho recuperato, sono stanco, come potrei non esserlo, ma sto bene. Emergono i pensieri ed i fantasmi della notte, il saperli affrontare e superare è, in buona sostanza, ciò che fa la differenza tra un ciclista “normale» e un randonneur. I tornanti ci fanno emergere dalle luci di Bourg St. Maurice che poco a poco spariscono in valle, ogni km aggiunto è un fardello che ti porti appresso e man mano che si sale le parole tra noi lasciano spazio ai silenzi, sempre più pesanti, sempre più vuoti, sempre più lunghi. C’è voglia di arrivare, oh sì, ma c’è tempo per patire, e molto. Questa salita lenta e dalle pendenze gentili, acuisce ancor più la sensazione di stillicidio da esaurimento delle forze fisiche e mette a durissima prova la tua determinazione psicologica nel voler arrivare fino in fondo, il tutto senza conforto alcuno, nemmeno visivo dato che sei fagocitato dal buio, sei stanco, sei solo con te stesso, con la tua cocciutaggine, con il tuo coraggio. Tutti i rumori che senti parlano di fatica: il ritmico sbuffare dei fiato, il vorticare dei pedali, il ronzio dello scorrere della catena sui rocchetti, il fruscio dei copertoncino sull’asfalto e gli ingranaggi dei cervello che girano. A la Rosière stop di 5 minuti per vedere da cartina quanto manca: ancora 8 km… e non c’è un’anima!

La breve pausa però rinfranca e alle 01:30 i nostri due fantasmi bucano il buio con una foto al cartello dei Colle dei Piccolo S. Bernardo, ma non è finita, almeno non ancora. Sappiamo bene che con un fardello di fatica simile, scendere nel freddo della piena notte da quasi 2200 m. non è impresa facile. Filo via davanti per una decina di km, ma per poco non salto giù in un paio di tornanti causa scarsa lucidità, quindi, quasi a La Thuile aspetto Luìs e prudentemente procediamo insieme. A Prè St. Didièr finisce anche quest’ultima calata notturna di 23 km. Ne mancano ancora 30 di passerella fino ad Aosta e col vento a favore, ormai sì che è fatta. Il cerchio si chiude con vicendevoli complimenti alle 04:00 del mattino, alla stessa ora che era cominciato, un modo non proprio come un altro per definire una… giornata piena!